ARTICOLI 2002

Motivi ad incastro

Festa di Sant’Antonio 2002
17 gennaio 2002

 

Il Capodanno. Mi è sempre piaciuta questa festa, che più che una festa è un arrivederci; e più ancora è un augurio per propositi nuovi, una festa in cui è lecito compiacersi di ciò che verrà fatto. E siccome ciò che si farà nessuno lo conosce, si è contenti e felici, proprio come quando si è ricchi di speranze ben piazzate e riposte, e degne di essere nutrite. Che c’entra tutto questo con Sant’Antonio? C’entra perché Sant’Antonio è una festa purificatrice, innovatrice. E’ una festa cosiddetta solstiziale (vedere cenni alla pg. 204 del libro
di Bertini su Gessate); il giorno più corto dell’anno cade il 21 dicembre, e dopo circa un mese si vedono i primi effetti della luce che s’allunga. É il segno della rinascita, della primavera incombente, dell’attesa vera, della speranza che si compie. Allora occorre un cenno, una spinta, come trarre auspici per affrettare i tempi, dare un contributo morale, celebrare i propositi della buona volontà e convincersi,  – l’importante è convincersi –, tutti insieme, che sì, è giunto il momento di disfarsi del passato, seppellirlo se è stato infausto, o invocare il suo ripetersi quand’è stato generoso. Questa usanza contadina segue di poco il Capodanno. Fa freddo e nei campi gelati o in cima alle colline ci si stringe attorno a un gran falò. Le sterpaglie, le fascine e i “malgasc” per quest’anno ancor più secche prendono fuoco in un istante e danno un sonoro scoppiettio di faville che rifulge di splendore nell’arida pianura. Miriadi di piccole comete impauriscono la folla tutt’attorno. I volti spauriti dall’incendio maestoso sono illuminati a intermittenza dai bagliori. Le fiamme incontrastate si spandono nelle imprevedibili direzioni a lambire volti e corpi degli impavidi spettatori. Tocca a uno di fuggire per non rimanere chiuso nell’incanto. Tocca a un altro di rincorrere una lingua di fuoco e non raggiungerla mai dacché  è sparita nel nulla. Così l’andirivieni dal falò è come una sfida già vinta. È come un osare sicuro. Così si vorrebbero tendere i pensieri, mentire che fossero esauditi, avverati con un balzo. Ma tenui sono i pensieri di festa e di follia, e spesso lugubri le note che li animano, pur nel buio illuminato di una sera. Perciò vanno poi intrisi di sudore e di onestà e riproposti con forza e con ragione nella luce del mattino. Non scapperanno, se son buone le intenzioni; fioriranno e daranno i loro frutti nella nuova primavera. Così l’audacia andrà premiata dal bel tempo e le cortine tenebrose dell’inverno spariranno presto sotto il sole più innalzato.

Da testimonianze degne di fede pare che  il patriarca del monachesimo sia morto effettivamente il 17 gennaio. Il santo  vincitore del male è maestro nel resistere alle tentazioni, e nel ridurle, sempre con la fede, la ragione e la volontà. Secondo altre spiegazioni popolari Sant’Antonio sarebbe il padrone del fuoco, e come tale, riuscirebbe a far evitare l’inferno ai non meritevoli delle fiamme. Sarebbe anche padrone, e per questo guaritore, di quella sensazione di  bruciore detta per l’appunto «fuoco di Sant’Antonio»  (dal Calendario delle “feste e dei riti di Alfredo Cattabiani”). Cerimonie agricole di lustrazione dei campi prendono parte in gennaio fin dall’antichità. Sant’Antonio, con la sua testimonianza di modestia e di buona volontà dà lustro e auspici alla vicenda pastorale di gennaio in vista della nuova stagione.  Parla di cose stupefacenti, dello svelamento di misteri, di riti propiziatori, del bello dello sforzarsi per compiere azioni benefiche, quali possono essere la lavorazione dei campi e le sedute di conversione alle regole della gentilezza e dell’onestà. Questo basta per ingraziarsi l’attenzione di Sant’Antonio, e invogliarlo a farlo intervenire su di noi, con tutti i suoi poteri.

Bene! Si innalzino le fiamme dei falò, ma che non durino fino alla bruma mattutina! Siano stagliate nel nero del creato, oscurino le stelle, sprizzino faville tutt’intorno come strali acuti e pungenti a scuotere i cuori timorosi ed avvizziti, a renderli più intrepidi e sagaci! Sant’Antonio! Rito della purificazione e della speranza. Manifestazione di Fede nelle cose semplici, nel pane da mangiare, nella forza dell’uomo, nel valore dei gesti e dei segni.

La campagna riposa in attesa delle nuove semine e tutto lascia sperare nella novità e nella fecondità. «State alla pingue greppia cinta di serti, o giovenche», cantava Ovidio nei Fasti: «per voi verrà il lavoro con la dolce stagione. L’aratore sospenda al palo l’aratro dimesso: la terra quand’è secca teme ogni solco… faccia festa il villaggio; purgate le ville, o coloni; ponete ogni anno i doni sopra i rustici altari».

La spiritualità delle tradizioni è anche insegnamento e cultura.

Walter Visconti

 

 

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Mostra su “San Massimiliano Kolbe”
2 febbraio 2002

 

Non sono degno di parlare di Padre Kolbe; lo faccio con grande ansia e titubanza, e pieno di dubbi e paure. Detto questo, con egoismo e a mia discolpa, devo aggiungere di essere stato spinto a visitare una mostra sensazionale su di Lui, che ha lasciato non pochi segni sulla pelle della mia anima.

Nel freddo serale avido ed angusto del tardo gennaio aspettiamo con ansia il privilegio di salire nei locali al primo piano dell’oratorio di Gessate dov’è allestita la mostra, sobria, umile, divina, sul Padre francescano Massimiliano Kolbe proclamato “santo” da Giovanni Paolo II il 10 ottobre 1982.

È come entrare in un clima di pace, nelle stanze si prova un senso di serenità e timore, si avverte un monito, un rimprovero, ci si adagia per degli attimi sul nulla della vita e sul tutto del creato. Mutano i sentimenti. È difficile pensare  di meritare lodi, o desiderare di divertirsi, di distrarsi; cambia  il senso del piacere, quello della soddisfazione, la dimensione della realtà viene rimisurata in attimi profondi di concentrazione estrema: l’importante è che lasceranno un solco, una traccia che fornirà al proprio destino un motivo in più di spiritualità, di senso di armonia della vita e delle cose; un proficuo simulacro generosamente donato dalla  provvidenza, e al quale affidarsi in caso di bisogno.

Prima di continuare devo assestare un colpo alla mia coscienza per rimetterla tranquilla e raccomandare a quelli che hanno “saltato” la mostra, di rincorrerla pure dov’essa sta, nei paesi vicini o lontani, ovunque, o altrimenti di documentarsi sulla vita di Padre Kolbe e riflettervi umilmente; lasciarsi avvolgere dai flutti del suo mare e trarne l’emozione miracolosa della salvezza.

Ciò che voglio attingere da questa visita è cronaca di sensazioni e sentimenti, e, lasciatemi dire che n’è valso qualcosa in più di un semplice spaziale appagamento visuale.

Fermezza e fede di Padre Kolbe: ecco gli insegnamenti. Ecco le didascalie che appaiono feconde dai pannelli della mostra. Le idee e le intuizioni, intese come piani di Dio, divengono realtà con la determinazione e l’entusiasmo, a costo della vita. La vita stessa, intesa come viaggio, ha un’andata e un ritorno, e in mezzo sta una calata. L’andata è la volontà di comprendere, l’ipotesi, la speranza (la rivelazione); la calata  è il fulcro della vita, l’analisi, l’ispezione, l’attivazione dei propositi (la missione); il ritorno è sinonimo di fine, di conclusione, di apoteosi e di soddisfazione (il sacrificio).

Ed ecco ancora: i segni. Tutto si sviluppa nella fede e nella visione mistica dei contenuti. Le rivelazioni nella vita avvengono in maniera schiva e segreta. Ognuno le ha e le medita intensamente. Qualcuno ne resta folgorato e pertanto condizionato, talaltro, sciagurato, incautamente le trascura e non fa tesoro degli offerti benefici. Per Padre Kolbe alcuni segni furono: l’apparizione della Madonna con le due corone, l’una bianca (la purezza) e l’altra rossa (il martirio) e il suo dolce sguardo; a Roma la miracolosa guarigione del pollice della mano destra bagnato con l’acqua di Lourdes; il misterioso effetto del colloquio con la madre nel seminario di Leopoli a farlo riflettere sull’intenzione di lasciare l’Ordine dei francescani.

Ma in Padre Kolbe esistono anche le fantasie, dolci, mistiche e felici, perché la speranza e la felicità si mescolano nei sogni e nella fede, attraverso le fantasie, a cui guai rinunciare: l’etereoplano, un velivolo con cui solcare il firmamento; un progetto per catturare le onde sonore del passato e udire la voce di Cristo.

Ma soprattutto cose reali, effettive, pratiche, enormi, incredibili, avveniristiche: la fondazione de “La Milizia dell’Immacolata”, la stampa del giornale “Il Cavaliere dell’Immacolata”, la sua distribuzione per via aerea, la fondazione della città dell’immacolata “Niepokalanow”con la sua organizzazione: la centrale elettrica, la tipografia,la chiesa, la cucina, la mensa,le macchine tessili, il viaggio a Nagasaki e la fondazione della comunità cristiana giapponese “Mugenzai no sono”, la stampa della versione in ideogrammi del “Cavaliere dell’Immacolata” dopo poche settimane, senza bisogno di tipografi locali. Che dire?

Sobrietà e impulsi da ascoltare; fantasticare col cuore e con la mente, con fede profondissima nell’Immacolata tanto cara ai cattolici polacchi, senza alcuna parsimonia di sé. Non, lasciarsi armare da smoderatezze, da velleità, da inconsistenze. Perseguire i sogni, per rifornirsi di carburante per la vita. Solo così le risoluzioni e i progetti si fanno belli e attraenti ai poli del nostro intelletto.

Caro Padre Santo Massimiliano Kolbe, non voglio parlare del tuo sacrificio finale (del tuo ritorno), così ognuno di noi si informerà e lo  immaginerà nella sua mente. Non so se ti seguirò, perché sono tra i deboli. E per morire occorre forza. E poi, quando ci si sveste delle toghe dei misteri e ci si trova davanti al bivio dell’abbandono della vita, allora molti di noi sono stanchi e titubanti, confusi e già sfiniti, ancor prima di morire.

Le tendenze orfiche della vita non si oppongono ai misteri.

L’unica vera consolazione che provo dopo essermi documentato su di te, Padre Kolbe, è che forse, esistono persone che nascono forti e altre che nascono deboli.

Walter Visconti

 

 

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Teatro a Gessate con:
Il Gruppo della Martesana Due

6 aprile 2002

 

I ricordi sono lo strascico dei tempi. Vediamo in proposito quanto è successo nel Teatro Nuovo di Gessate, e quali premesse vi siano di riproporre sempre più spesso avvenimenti teatrali che sappiano creare false realtà e far sognare sogni reali sempre nuovi.

Sono le 21:05, e dietro le tende rosse si notano i primi fermenti. «Sono emozionata, mi piacciono le emozioni, o meglio, le esperienze nuove…» Così un commento sincero e schietto esprime il sentimento suscitato dal teatro in una spettatrice curiosa e fremente. “Il Gruppo della Martesana Due” appare come l’erede de “I Legnanesi” di una volta, quelli che spopolavano negli anni ’70, quelli giusti, quelli veri. Due su tutti i nomi di personaggi della commedia dialetta le milanese (o lombarda) ad essere ripresi: la “Teresa” di Felice Musazzi e la “Mabilia” di Tony Barocco, impersonati nel Gruppo dai bravi Maurizio Maratea e Paolo Cambiaghi rispettivamente.

A ripensarci, tornano alla mente alcuni spunti dei più belli, dei più puri della perduta milanesità…, e qui sta all’età e alla memoria di ognuno, nonché alle tradizioni familiari, trarne gli spunti per rievocare momenti ormai lontanissimi nel tempo; ma basta un richiamo ed eccoli riapparire come svelti malandrini, bonariamente raccomandando di fare silenzio (de fa cito!).

Qui a Gessate siamo quasi ai confini con la Bergamasca d’oltre Adda, a un tiro di schioppo verso nord già ci troviamo ai piedi delle sottocolline brianzole, dove cambia lo strascico delle «e…»  lla meratese. Molti, – stavo dicendo, – ricorderanno il “Ciciarem un cicinin” della domenica pomeriggio radiofonica, quando ancora la famiglia si riuniva in cucina, al calduccio della stufa a carbone, la nonna ad attendere la voce di Evelina Sironi, il papà impaziente del successivo collegamento con “Tutto il calcio minuto per minuto”. Erano momenti di felicità, ora persi e introvabili, nei pomeriggi domenicali di forzata permanenza nell’abitacolo di un’auto, o in fiduciosa attesa in coda a un casello autostradale. Poi, finita l’epopea radiofonica, la TV prese a sostenere tutte quante le vicende domestiche, e anche i nonni, i figli dei nonni, e infine i nipoti dei nonni di allora (che saremmo noi di adesso, dai trenta ai cinquanta), persero un po’ alla volta quegli affetti immeritati.

Ma c’era un nucleo di commedianti (per il vero era sulle scene dal 1949), che si fece riconoscere per lungo tempo e divenne assai rappresentativo della stagione milanese-lombarda negli anni che seguirono: erano la compagnia dei “Legnanesi”. Le impulsività, le urla dialettali fuse nelle magiche vesti sgargianti di colori, costrinsero molti di noi – qualcuno ricorda? –ad accasciarsi al suolo dalle risate, risate sguaiate, genuine; non risolini di satira elegante e appetitosa, ma autentiche genuflessioni alle regole del suono, quasi trasgressioni del ridicolo, vere punzonature per folli gare dell’esagitazione, grancasse per spropositate enfatizzazioni in vernacolo di semplici dialoghi di cortile. Dunque, io spero che lo spettacolo offerto sabato sera a Gessate abbia potuto appropriarsi in giusta misura della memoria e dei fasti di ciò che ognuno avrebbe voluto ricreare, o rivisitare.

Fatto sta che la compagnia ha segnato un bel battesimo per la stagione teatrale del nuovo cinema- teatro di Gessate. Sono scesi in pompa magna i neo Legnanesi (chiamo così il Gruppo di Cernusco nato nel 1983): hanno invaso con scene, costumi, luci e colori vivissimi l’incredulo “palco”, che quasi non conteneva la portata di quel fiume di gesti, parole, musica e balli. La sala è stata inondata dalle 9 a mezzanotte da un’ininterrotta sequela di fraseggi e di azioni recitate con rapita ed entusiastica veemenza. Il pubblico ha accompagnato lo spettacolo con una risata intensa e gaudiosa, come succedeva al Manzoni o allo Smeraldo per i Legnanesi di una volta, e come avveniva in famiglia nella cucina riscaldata dalla stufa a carbone  all’appuntamento domenicale con il “Gamba de legn”. Dunque, ben vengano nuovi ispirati Gruppi teatrali a rischiarare quanti più sabati sera si potrà nella piana lombarda, e particolarmente in quel di Gessate. Li aspettiamo, nuovi emuli delle tradizioni del milanese, col loro fragore, con i loro toni vividi ed energici. Si inventino, si formino nuovi gruppi, nuove compagnie, alla buon’ora! 

Walter Visconti

 

 

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La Globalizzazione” dopo l’11 settembre
Convegno al Teatro-Cinema  di Gessate

23 aprile 2002

 

Ecco qua i miei appunti! Globalizzazione!
Medicina che risolve, causa che scatena tutti i mali del mondo.
È vista come un fenomeno da contrastare, come lo fu  la Rivoluzione Industriale due secoli fa, ai suoi esordi. Detto da Padre Gianpaolo Salvini, che si occupa di problemi di sottosviluppo nell’America del Sud, economici del Terzo Mondo, che dirige da 17 anni “La Civiltà Cattolica”, ed è un economista.

La Globalizzazione! Tutti usano questa parola. I Francesi dicono “Mondialization” per distinguersi, come sempre.
Diamo subito la definizione data dall’OCSE: La G è un processo attraverso il quale mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più dipendenti tra loro a causa della dinamica dello scambio di beni e servizi e attraverso movimenti di capitali e tecnologia..

Ecco una serie di caratteristiche della G: potere di unione economica: sì; potere di unione culturale: no (per ora).
È un mito: per molti; è da demonizzare: per la maggioranza.
È un fenomeno messosi in moto “prima” della sua teorizzazione.
È nato per decisioni “umane”, dal “basso”, non per decisioni “politiche” dall’”alto”.

Altre considerazioni. La G designa uno stato d’animo. La G è un’entità senz’anima, elegge un ambiente soffocante in cui ci si sente rinchiusi. L’impressione è che manchi l’aria. Si globalizza l’economia, ma non si globalizzano i valori (ad esempio la solidarietà). Chi è il soggetto della G? Non si sa. La G non ha ancora una dimensione politica, perché le manca un’etica e una mitologia, quindi non piace molto ai giovani e ai religiosi, gli intellettuali sono critici sul fenomeno, la letteratura è cauta. Perciò i “No Global” la contestano, ma senza proposte alternative (per ora).

Dopo l’attentato alle Twin Towers la G è stata accelerata o ritardata? Padre Salvini dice: «A mio avviso è stata “ampliata”. È stata globalizzata la paura, globalizzato il terrorismo. Conseguenze: violata la sicurezza nazionale; viviamo come in una nuova forma di colonizzazione». Ancora. Nessun governo si oppone alla G.
Tutti vedono in essa dei vantaggi economici. Persino Fidel Castro dice: «È un fenomeno della natura come la forza di gravità. Occorre “regolamentarla” per sfruttarla in senso positivo». Da notare: nessuna enciclica sulla G è apparsa finora. La prima enciclica sociale fu la “Rerum Novarum”. Ogni decennio, dal 1931, esce un documento sociale. È dimenticanza o stanchezza?

Dunque, G nel bene e nel male, secondo l’uso degli uomini.
Il nostro mondo è divenuto piccolo e mobile: scomparse le barriere “tempo” e “spazio”; cambiate la “velocità” e l’”estensione”. La trasmissione a distanza di dati, la velocità dell’informazione fanno venire in mente una “rete” che avvolge tutto il mondo, Internet per l’appunto, una struttura economica sviluppata a rete, per governare i mercati.

Ma la povertà nel mondo, con la G, aumenta? Secondo il mondo missionario aumenta: pensiamo alla Tanzania, pensiamo all’Argentina o all’Africa Nera. Secondo i dati dell’ONU diminuisce. Oggi si fa molto di più che un tempo per combattere la povertà, ma con ciò non è detto che diminuisca.
L’85%  della ricchezza prodotta va nel 22% delle mani (in Italia il 40% della ricchezza appartiene al 10% più ricco). Da quando esiste la G, cioè dal 1975, nel mondo, la ricchezza che prima si stava spalmando un po’ meglio, oggi si concentra sempre di più.
Forse oggi tutti stanno meglio, ma le disparità vanno aumentando. Altre conseguenze della G: aumenta la competitività, le grandi ditte sono costrette a fondersi, si provocano dei licenziamenti, e il bello è che con queste notizie le azioni delle nuove ditte salgono.
Una piccola consolazione in casa nostra: l’Italia è anomala in questo, è molto competitiva all’estero dove le piccole e medie aziende sono molto presenti e tranquille.

E ora si fissino alcuni buoni propositi per la G: lo studio diventa fondamentale per conoscere l’economia mondiale. Meccanismi culturali non indifferenti si annidano nella G, occorre sfruttarli. E guai a dire che la G debba smantellare lo “stato sociale”! La maggiore conquista del secolo appena finito, che ha eliminato la povertà di massa, non si può discutere né smantellare. Estendere lo “stato sociale” a livello globale, globalizzarlo, questo sì! Estendere i meccanismi di trasferimento del benessere. Globalizzare la solidarietà. Non ci sono ancora le avvisaglie di una simile battaglia. Ma questa è la grande sfida a livello mondiale. Ci vorrebbero leggi internazionali, regole che incentivassero certi comportamenti e ne scoraggiassero altri in modo che la G venisse incanalata verso una maggiore equità mondiale. Per esempio, i paradisi fiscali, stati sovrani con leggi favorevoli per chi vuole nascondere soldi, dopo l’11 settembre, da 36 che erano, sono stati ridotti già a11 (per volontà dagli USA dopo la scoperta che in alcuni di questi sostavano i soldi di Bin Laden). Dunque si possono fare delle regole. La UE, costituisce una risposta civile alla G. Attorno ai tavoli si dicono tante cose: occorre restituire il primato alla politica, toglierlo all’economia. L’economia di mercato è come  una pecora: va tosata, non ammazzata. Ancora: l’afflusso dei clandestini che affligge l’Italia deve trovare una soluzione nei loro paesi. Occorre migliorare l’economia di “quei” paesi; certo, ma ciò significa impoverirci noi! E noi abbiamo un difetto: siamo egoisti. Ancora: la fame nel mondo va risolta. Esistono quantità di prodotti per sfamare tutti.Ma i prodotti agricoli, per essere consegnati devono essere pagati (prima)! Ed ecco una frase accomodante: “Ma l’economia di mercato non può arrivare a tutto!” Oh! Che benevola espressione! Se saremo capaci di distribuire ricchezza, allora la G, veramente, sarà una nuova rivoluzione. Ecco la cosa  più importante emersa dal convegno: l’idea che il futuro obiettivo per noi tutti sia quello di  globalizzare l’etica. Ciò potrà veramente costituire la salvezza del mondo intero. Significherebbe uniformare le regole, in senso generale, e quindi raggiungere il compimento di quell’obiettivo tanto ambito che sarebbe “il rispetto reciproco delle religioni”, degli usi e costumi. Significherebbe il superamento dei “nazionalismi” e il ritorno a quella sorta di convivenza tra i popoli delle varie sponde, che si miscelerebbero tranquillamente e senza odi. Ma questo costituirebbe l’instaurazione di un dominio delle etiche mondiali.Ciò costituisce materia di studio e meditazione per tutti.

La Globalizzazione potrebbe costituire la salvezza del mondo. Con l’invito a Padre Salvini il Cine Teatro di Gessate si è lanciato in una sfida veramente affascinante. Il livello culturale è senza precedenti. L’incontro si è sviluppato su temi grandiosi. L’interesse raggiunto è stato notevolissimo. Veramente la serie di inviti si è posta su un binario di assoluta grandezza.

Walter Visconti

 

 

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Concerto d’Autunno 2002
19 ottobre 2002

 

Sera di sabato 19 ottobre 2002: Nella chiesa parrocchiale di Gessate. è grande attesa del Concerto. Le navate sono gremitissime, già 45’ prima dell’inizio. Trovo una sistemazione sufficiente che mi permetterà  di udire e solo intravedere. Sfoglio l’opuscolo e noto che anche quest’anno si è attinto a musicisti italiani, per stare sul sicuro.

I parte. Ore 21.00 in punto: entra l’orchestra Gaetano Donizetti. Segue la “CORALE Ss. PIETRO E PAOLO” a prender posizione innanzi al rosso vellutato dell’altare.
Abbia inizio l’11° Concerto! Dopo il  magico evento verdiano
di cui nostalgico è il ricordo, si apre con le famose “Stagioni” di Vivaldi, musica per archi. È scelto l’Autunno. Sensazioni di fato e abbandono iniziali, da cui però già occhieggia la rinascita, e sempre più si snoda e riconosce la parentesi omeopatica della natura, che non muore, anzi rivive con fulgore crescente di rintocchi distesi ed incalzanti. Virtuosismi di violini si susseguono in turbinii dai malinconici richiami: insistenti, dominanti, operano conquiste e liberano consensi. Applausi e “bravi” subito per tutti, ma è solo l’inizio. Si procede con un fresco assunto dalla corale: il “Gloria RV 588 in re maggiore”, una base rappresentativa della “appassionata e misurata pratica polifonica” di Vivaldi (come Mario Ronchi definisce la musica sacra del compositore). Interpreti Sandra Vanni e Giovanna Caravaggio. La voce della Corale si stende in tutta la sua ampiezza fonica nel primo brano. Nel secondo, acuti contrapposti in fasi colme di nenioso misticismo riassumono la comunicativa ascetica del “gloria”. Alla terza ripresa, virtuosismi del soprano e splendide risposte orchestrali. Quarto brano: breve e intenso richiamo con coro in esplosiva completezza. Quinto brano con dialoghi iniziali tra soprano e orchestra. Melodia morbida e fluente. Sesto brano: di nuovo coro e orchestra in piena espressività, accordo e autonomia. Settimo: soprano e orchestra in delicato confronto. Ottavo: corale in tutta la potenza nel “miserere”. Intrecci fantastici di voci. Nono: ripresa con dolce melodia orchestrale, assolo del soprano. Espressioni come ondulazioni su declivi collinosi si accolgono a vicenda (voci e orchestra). Decimo: orchestra più soprano in ariosi saliscendi. Undicesimo: entrata imponente del coro, subito supportato dall’orchestra. Apoteosi finale. Prova veramente stratosferica della corale, in un finale emozionante e intensissimo. Chiusura monumentale e applauditissima. Superato a pieni voti l’esame anche quest’anno. Intervallo. Un po’ di riposo per tutti. Odo balenare ipotesi di spaghettate, e mi adeguo poiché la fame sale.

II parte. Ecco gli annunciati fuochi d’artificio: dal “Guglielmo Tell” di Rossini, ouverture per orchestra, con direttore Giacomo Mologni. Ossessiva e impetuosa, mutevole, impavida, prima tenue, flebile, poi massiccia e imperativa, colma di eco e rimbombi, tremuli e spavaldi; densi e conclusivi appelli miscelati a perduranti cinguettii e urla trascinanti. Tutte insieme le trombe ad effettuare l’impetuosa cavalcata, tutte al preludio della carica sommessa e travolgente. Enfasi finale con grancassa e scuotere di cuori e trombe e violini e l’orchestra tutta  (fiati e corde). Da “Dal tuo stellato soglio” dal Mosé, ariosi scambi di battute con leggiadra melodia al seguito. Splendida alternanza di voci lungo un ubicato filo conduttore. Riverente e generoso applauso.
Poi due brani dalla “Cavalleria” di Mascagni. Prima “Gli aranci olezzano”. Suono di campane e musica orchestrale variopinta subito in auge. Ritmo e melodia visibili, e riconoscibili. Coro alle prese con l’ouverture ricorrente. Arioso susseguirsi dell’amato ritornello. L’incedere del tenero canto è armonioso, grazioso, sensibile, ammaliante nelle proposte e nei ritorni. Poi è la volta di “Intermezzo”. Musica piena, completa, non dirompente, melodiosa e continua, distaccata, discorsiva, tenace, propositiva, variegata, colloquiale, tenue. Siamo nella sfera del sublime, detto dal Maestro Costante Ronchi. Ultimo brano, sempre  dalla “Cavalleria”: “Il Signore è risorto”. Organo in apertura, con espressione piena. Sandra Vanni e Corale cantano insieme, rivaleggiano. Fusione celeste di voci: scandita dalla solista impetuosa del coro, in una resurrezione irreale e suprema di tutto. Applauso finale interminabile, con diversi richiami. Cose grandi in una piccola città.

Brano di Verdi, immancabile, in chiusura: “Và pensiero”. Fase dirompente iniziale, poi lo sfumato tremolio… come di stelle. Alla euforica ripresa… brividi salire per il corpo e una lacrima scendere sul viso. Esistono ancora bontà e trionfi…
“Alleluia”, di Hendel, trionfale ultimo regalo.
Un grazie infinito ai protagonisti della serata. Arrivederci.

Walter Visconti

 

 

 

IL GIORNO
In ricordo di Marilena Mapelli

 

  1. Cara Marilena, eri e resti persona da conoscere, da non perdere, con cui dialogare, fare…, sempre, anche ora, nel giorno sereno del ricordo. Vedonsi astratti petali di peschi in fiore ad accudire sul vivido tuo viso, ora silente e stanco nella calma del celeste. Altisonanti furono gli impatti ormai divelti con la vita tremula e sagace che tenesti. Si apre dunque una nuova età per te, quella del creato: delle luci, delle acclamazioni, delle dolci pause riposanti. Un fremito: Chi sa! Senza di te paura immensa della vita, più che del nulla!

Quali “motivi ad incastro” potranno ora scriversi per te? Tu che fosti il nostro altare benigno, ora guardi le voci qualificarsi ad una ad una per le vie disaffollate, colme di fiori e piante, a salice, piangenti, ad avvolgerne non il percorso accidentato, ma l’ampio ambulacro per le vie dell’universo misterioso. Chi ti accoglierà placido e sereno non sarà il fato, bensì l’inno alle glorie elargite a profusione.

*

  1. Tu, amorevole, rimarrai nel ricordo: ferma, bonaria, sensibile, sapiente, dolce, modesta, colta. Le sembianze tue, pallide e serene, smosse, non faranno di te cenno alcuno alle speranze ritorte, tradite dagli ultimi tempi riluttanti, gemelli di alterne gioie e dolori.

Era un piacere parlarti. Toccando con l’udito le tue parole virtuose e ponderate si provava un gusto etereo e ammaliante; riverenza al cospetto dell’anima discreta: da lei, taciti consigli e commenti illuminati si insinuavano sicuri in seno alle anse fatiscenti delle sponde.

Ancora, ricordando gli umili richiami a chiarimento delle prove dei futuri “dialoghi” gessatesi. Ansie e impegni, gioie e malumori erano profusi nelle pagine del “tuo” Dialogo, alla fonte di nuove iniziative. A volte un po’ smarrita ti piegavi ad accettare le proposte di noialtri, a volte sembravi ritrovata nell’accogliere degli spunti, senza mai reprimere alcunché, senza sfasature e interdizioni.

Ti piaceva il bel lavoro accorto, complice dei vividi modelli di gioventù che amavi; e amavanti…, con le loro storie, la loro freschezza, tramutate or ora in lacrime e sorrisi, tutti per te…  

*

  1. È bene piangere; non per nulla lo si fa; alquanta è la paura di non poterlo fare a rimembranza inespressa e inesaudita. Ma poiché tu eri ben protesa ai nostri cuori, averli conquistati ti bastava, nevvero?

Ora, ecco che noi si piange copiosamente, senza ritegno alcuno, per te, per la tua memoria melodiosa, che accompagnerà spavalda i nostri “Io”, e li vedrà poi portarti dentro, e te calarsi dentro ai loro cuori, e rimanervi per lungo lungo lungo tempo ancora.

*

  1. Ora tu riposi addormentata nel tuo candore statico e profondo, come a ritemprare le membra, e la maschera del cinico anfitrione non rimarrà al tuo fianco per lucrare mosse e aspetti vaghi e fuggitivi.

*

  1. Cara Marilena, ancor più ricchi del tuo incessante arbitrio schivo e melodioso, non sappiamo come piangerti, ed è questo il merito maggiore dei tuoi pregi veritieri: il non lasciare veli oscuri sulle soglie, il non permettere ad ansanti larve trascinarsi senza speme, a piante e germogli arrestarsi senza fioritura. Che venga il “dunque”, che si faccia la “natura”, che sorgano i “palazzi”, che tutto continui su di te, anche senza la tua fisica presenza, al cospetto del tuo ricordo impellente e duraturo!

*

  1. Le preci serviranno, oppure no! Che importa al divenire degli affanni?

Come sarà, come farà senza di te il “Dialogo”? Non sarà uguale; ma ancor sarà.

*

  1. Ecco, gli animi sono concitati dalla calma e dal pudore dei tuoi gesti. Le tue accorte frasi ancor fanno menzione in mezzo a noi e si accordano al futuro glorioso del tuo animo fecondo. Divini sentimenti approdano al tuo cuore, ovunque si trovi, ora e sempre, nel tempo indefinito dell’eterno.

Lodati siano i canti tuoi orfici, e la notte.

26.09.2002  Walter Visconti